lunedì 29 aprile 2013

TELECOM-ITALIA & CALL CENTER IN ROMANIA.

Che fortuna abbiamo. Un nuovo governo di cambiamento da cui è piovuta una raffica di novità: saremo tutti salvi. Le promesse in campagna elettorale devono essere matenute, a parole! Fino a quando gli italiani continueranno a bersi le bugie di questi professionisti dell'inganno non è dato a sapersi. Intanto,  chi può scappa dall'Italia. In particolare le aziende che possono delocalizzano le loro attività, o meglio alcune fasi delle loro attività. In particolare quelle che riguardano il lavoro: producono all'estero ma vendono in Italia. Producono dove la manodopera costa poco (niente) e continuano a vendere prodotti e servizi in Italia con prezzi vertiginosi. Per esempio la Telecom nonostante in Italia possa godere di indubbi vantaggi rispetto ai concorrenti (è propietaria dei tralicci elettrici e del cosiddetto utlimo miglio), trasferisce all'estero opportunità di lavoro in un periodo già duro sul versante occupazionale.

Telecom, l’assistenza risponde dalla Romania
di
O dall'Albania. La società punta a tagliare i costi della divisione Caring Services. In Italia 32mila lavoratori in solidarietà.
Squilla il telefono. «Buongiorno, chiamo dalla Romania per Telecom Italia. Acconsente a parlare con me?». Chissà quanti italiani, rispondendo a una chiamata, avranno già sentito questa formula. A presentarsi, dall’altro capo del filo, sono gli operatori dei call center Telecom nell’Europa orientale, costretti dalla legge 134 dell’agosto 2012 a rivelare la provenienza della telefonata.
Gestiscono servizi di customer care e sollecito nei pagamenti, e contattano i clienti italiani da città come Bucarest o Tirana. Inutile chiedere quali siano le loro condizioni di lavoro: «Non posso parlare…Ma ci pagano poco, veramente poco», risponde un’operatrice rumena.
IN ITALIA, SOLIDARIETA’ PER 32 MILA DIPENDENTI. Se i posti di lavoro emigrano a Est, quel che resta in Italia vede un drastico ridimensionamento. Lo scorso 27 marzo Cgil, Cisl e Uil hanno siglato con Telecom un accordo che prevede contratti di solidarietà per 32mila dipendenti e la collocazione in mobilità per altri 500. Un compromesso raggiunto dopo una lunga trattativa, per scongiurare (almeno momentaneamente) la “societarizzazione” della divisione commerciale e delle aree staff di Telecom Italia.
PATTO SINDACALE CONTRO LA SOCIETARIZZAZIONE. A fine 2012, l’azienda intendeva scorporare le attività di call center e di customer care affidandole a una società separata; i sindacati (comprese le sigle di base) si sono opposti, ottenendo che la ristrutturazione riguardasse “solo” le sedi con meno di 50 dipendenti, che attualmente sono 46 (su un totale di 125). La loro chiusura costringerà i lavoratori a spostarsi dove saranno concentrate le attività o, in alternativa, a lavorare da casa (telelavoro), sottoponendosi a una serie di vincoli.
DA PIACENZA A MILANO, ANCHE SE LA SEDE E’ DI TELECOM. La sede “187” (il servizio clienti) di Piacenza, ad esempio, è tra quelle che chiuderanno. Ai 29 dipendenti, per lo più donne tra i 45 e i 50 anni, è stato chiesto di trasferirsi presso la sede di Milano, a più di 60 chilometri da casa. Ecco perché, nonostante la Cgil abbia firmato l’accordo con Telecom, le sezioni provinciali del sindacato riescono difficilmente a gestirne l’applicazione: «Non si capisce dove sia il risparmio, visto che il locale del call center  non è in affitto ma è una sede Telecom da sempre», racconta Mattea Cambria, della Cgil piacentina. «Senza contare che i turni, a Milano, partirebbero dalle sei del mattino fino a mezzanotte. Come potranno raggiungerla i lavoratori, gran parte dei quali vive in collina? Chiedere loro di andare a Milano è come costringerli a licenziarsi».
A Tirana e Bucarest la paga oraria è di 2 euro l’ora.
Le dipendenti di Piacenza, tra l’altro, si sono messe in contatto con le loro colleghe in Romania, dopo essere state sollecitate da utenti insoddisfatti del servizio: «Hanno scoperto che la paga oraria delle operatrici di Tirana e Bucarest non supera i due euro l’ora», spiega ancora Cambria; «Ecco perché, nonostante la qualità del lavoro non sia la stessa, l’azienda preferisce abbandonare l’Italia».
CHIUSURA IN VISTA ANCHE PER POTENZA. Nel Mezzogiorno la situazione è anche peggiore: in Basilicata la presenza di Telecom si assottiglia di anno in anno, e la chiusura della sede di Potenza è solo l’ultimo di una serie di colpi. Nella sede Telecom del capoluogo lucano lavorano circa 40 persone, tutte donne sulla cinquantina: «Ad oggi non sappiamo né la data del trasferimento, nel la destinazione», spiega Anna Rosselli, della Cgil Basilicata. «Le lavoratrici sono convinte che il telelavoro sia solo il preludio al licenziamento, anche perché erano già in contratto di solidarietà dalla precedente riorganizzazione. La verità è che Telecom sta abbandonando questo territorio, così come Enel e Poste Italiane».
IL COSTO DEGLI OPERATORI SUPERA DEL 30% LA MEDIA DI MERCATO. In un documento dello scorso febbraio sulla divisione “Caring services”, Telecom stima che il costo dei propri operatori superi quello di mercato del 30%. Troppe sedi e poco flessibili: di qui, la necessità di razionalizzare la presenza sul territorio, per recuperare produttività e competitività. «Rendere più competitiva l’azienda significa peggiorare le condizioni di lavoro, come dimostra l’accordo del 27 marzo che noi non abbiamo firmato», sostiene Fulvio Macchi dello Snater, sezione delle telecomunicazioni del sindacato Usb. «Per evitare il distacco dei servizi alla clientela, le sigle confederali hanno accettato tutta una serie di ricatti da parte dell’azienda: dalla chiusura di alcune sedi, agli spostamenti sul territorio dei lavoratori, fino a un aumento dei carichi di lavoro, in evidente contraddizione con i 32mila contratti di solidarietà e con le 500 collocazioni in mobilità».
IL TELELAVORO MONITORATO DA UNA WEBCAM. L’accordo, in effetti, prevede l’adozione di misure fortemente contestate: in caso di telelavoro, ad esempio, i dipendenti si vedranno installare in casa propria, sulle postazioni di lavoro, delle webcam. «Andranno accese affinché il responsabile controlli l’inizio e la fine dell’attività lavorativa, e ogni volta che vorrà comunicare con le lavoratrici», spiega Macchi. «Fino ad oggi, nel telelavoro era prevista solo la comunicazione vocale, il video non era permesso. Ora cambia tutto».
Ai tecnici viene installato in macchina un geolocalizzatore.
Controlli simili scatteranno anche per i tecnici, che si spostano da un cliente all’altro per prestare l’assistenza richiesta: «Pensi che si ritroveranno in macchina dei geolocalizzatori, che indicheranno ai superiori ogni loro spostamento durante la giornata, minuto per minuto». Inoltre, il rendimento dei lavoratori potrà essere comparato a fini disciplinari: chi produce poco sarà passibile di sanzioni.
LA SOCIETARIZZAZIONE, COMUNQUE, NON E’ ESLCUSA. Nonostante la chiusura di tante sedi e l’incerto destino di migliaia di persone, l’accordo non esclude affatto la “societarizzazione” della divisione “Caring services”: le misure di recupero della produttività, infatti, saranno oggetto di verifica tra un anno, il primo aprile del 2014:
Gli esiti di tale verifica […] costituiranno elemento di valutazione in relazione alla decisione aziendale di procedere alla societarizzazione di Caring Services. Sino a tale data l’azienda non attiverà iniziative in tal senso; nella stessa sede di verifica si valuterà l’eventuale introduzione dell’orario di lavoro settimanale a 40 ore.
«Negli ultimi anni molti dipendenti hanno subìto contratti di solidarietà, con decurtazioni di salario fino al 47%», precisa ancora Fulvio Macchi, «e oggi vogliono applicarli a 32mila lavoratori, con tagli che potranno toccare il 15% dello stipendio. Senza contare i 500 lavoratori in mobilità, di cui solo 200 saranno pensionabili. Gli altri andranno a riempire le fila degli esodati». Una situazione intricata, che coinvolge decine di migliaia di operatori in tutto il Paese. «Gli unici che non hanno subìto conseguenze sono i dirigenti, che oggi in Telecom sono 694».

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